UN PAESE DA RICOSTRUIRE
Sono almeno 25 anni che il nostro Paese si è sostanzialmente fermato e seduto. Ma tutto questo non dipende solo da noi, è evidente. Ma certo noi non abbiamo fatto abbastanza per evitare di fermarci e sederci. Ci è mancata l’intenzione della condivisione e della responsabilità collettiva. Di fronte ad un destino che si disegna in comune abbiamo spesso guardato ai fondamentalismi di quartiere, dove l’importante non è vincere, ma impedire all’altro di vincere, anche di fonte alla distruzione. “Gli storici del futuro – afferma Roberto Orsi, uno dei tanti studiosi italiani emigrati a Londra, – probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un Paese che è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale in soli vent’anni in una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate ‘terzomondializzazione’, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico istituzionale”.
Dobbiamo lottare per sconfiggere questa previsione.
Dobbiamo infatti essere consapevoli che un’epoca è nella sua fase terminale e un nuovo tempo si sta affacciando. Sta finendo l’epoca dello sviluppo e dello sfruttamento infiniti della natura; della ricerca del particolare e della perdita del totale; l’epoca delle certezze e delle sicurezze sempre cercate, sempre credute, ma mai trovate.
Non siamo solo quindi in una semplice crisi finanziaria ed economica, pur con tutto il suo enorme peso, ma in una ben più complessacrisi di sistemache riguarda integralmente e complessivamente le tematiche socio-economiche, ideali e politiche. E’ una crisi che riguarda tutti: dalla Cina, agli Stati Uniti, alla nostra Europa. Le infinite tragedie dell’immigrazione del Mediterraneo sono figlie di questi tempi instabili. Di fronte a vicende di una tale enormità dovremmo avvertire l’urgenza del fare, dell’operare per sostenere la dignità dell’uomo, dell’impegnare ogni sforzo per evitare che l’unica alternativa sia tra negazione dei diritti nel Sud del mondo e una speranza che muore nel nostro mare. È una crisi che sta ricomponendo nuovi equilibri mondiali, in un contesto economico di calo considerevole dei commerci internazionali e di utilizzo di nuove fonti energetiche. Un quadro che vede sempre di più il Mediterraneo circondato da battaglie, guerre e lotte nell’incertezza di veder fiorire le possibilità reali di un autentico sviluppo economico e politico-democratico. E l’Europa bloccata dalla ricerca di equilibri contabili, senza una reale guida politica e incerta nelle proprie relazioni internazionali.
In Italia non siamo riusciti a trovare sistemi e strumenti per gestire il cambiamento e l’innovazione e siamo ancora immersi in una crisi strutturale e profonda. Gli scambi tra imprese e imprese si sono ristretti considerevolmente, la circolazione del capitale sta interrompendosi in una fase di deflazione che sta causando l’abbassamento sia dei margini delle imprese che dei consumi degli italiani. La crisi che aggredisce il nostro Paese non è soltanto economica ma anche etica, sociale e politica. Una crisi che ha portato l’Italia sull’orlo dell’abisso. Ma oggi è il momento per tornare a determinare le nostre possibilità.
L’Italia è il Paese che, quando è riuscito ad essere creativo e innovativo, ha costruito gli artigiani-artisti, i distretti industriali del made in Italy, i cooperatori sociali e di comunità. L’Italia è il Paese delle bellezze artistiche, dei paesaggi mozzafiato, della musica, della storia, della creatività.
L’Italia è il Paese che, all’indomani della seconda guerra mondiale, facendo propri gli insegnamenti delle migliori culture politiche e sociali, è riuscita a passare dalla marginalizzazione ai primi posti della classifica delle economie più industrializzate in poco più di un decennio.
Non possiamo più attendere il tempo del riscatto civile del nostro Paese. Il tempo in cui sarà ricostruita la fiducia nelle istituzioni, il tempo in cui saranno archiviati anni di cattiva gestione del bene comune, per trovare nuove regole di una convivenza civile rintrovata, e sottrarre i cittadini da sofferenze strutturali come l’insostenibilità dell’assistenza sociale, il debito pubblico, l’evasione fiscale e la corruzione.
La giustizia è uno dei peggiori servizi che lo Stato offre al cittadino tra durata dei processi, arretratezza digitale, numero dei giudici e degli avvocati, iperproduzione normativa, moltiplicazione dei riti, geografia degli uffici giudiziari. Senza che vi sia un intervento per adeguare l’efficienza della giustizia o per dedicarsi alla semplificazione legislativa.
E al Sud come al Nord, in tutto il Paese, la criminalità organizzata ha approfittato per anni della mancanza dello Stato e della politica per radicarsi e distruggere il tessuto sociale delle comunità. Le statistiche internazionali purtroppo lo confermano anno dopo anno. Una cultura forte della legalità deve inaridire il terreno nel quale la criminalità si alimenta. I comportamenti illegali a qualsiasi livello non vanno tollerati. Le risorse per far questo ci sono, sono i beni confiscati alle mafie, che però devono vedere una riforma radicale nella loro gestione per renderli elementi di valorizzazione territoriale e non luoghi di sperpero di denaro pubblico. La sola guerra da dichiarare è quella alle mafie, così come alla corruzione che ne è figlia e all’evasione fiscale che ne è conseguenza. I controlli devono essere severi e frequenti, sostanziali oltre che formali, ma anche molto va chiesto ad un’educazione scolastica che consegni di nuovo il senso dell’etica pubblica.
Per indicare la rotta per uscire dalla crisi e ritrovare un senso di comunità, una prospettiva economica, uno spazio di condivisione e realizzazione, la politica deve ritrovare la capacità di dare un indirizzo e costruire orizzonti. Superando sfiducia e delusione la sinistra in Italia può ritrovare un senso se riuscirà ad essere la strada per uscire dal tempo difficile che viviamo. È necessario un Partito Democratico vivo ed energico, che deve saper essere campo largo delle forze progressiste italiane, un partito di ispirazione europea, aperto alla società e al confronto con l’associazionismo diffuso, una forza politica che renda protagonista ciascun militante nell’impegno per costruire uguaglianza ed opportunità. Il Partito Democratico deve diventare un partito speranza, capace di mobilitare intelligenze, competenze e passioni, superando la cultura della contrapposizione e dell’indifferenza. Occorre una vera rigenerazione del partito sul piano culturale, progettuale e programmatico. Dopo la sconfitta alle elezioni politiche dello scorso febbraio ed avendo preso finalmente coscienza dei nodi irrisolti che ci trasciniamo dietro sin dalla nascita del partito, il nuovo momento che viviamo potrà essere la Bad Godesberg annunciata e mancata all’origine dell’ambizioso progetto che è il Partito Democratico e finalizzare il nostro impegno alla costruzione di un’area autenticamente alternativa alla destra conservatrice.
OGNI UOMO È UN PEZZO DEL CONTINENTE
Al centro di questa nuova proposta politica deve essere messa la persona, secondo un approccio antropologico che sostituisca l’oramai ristretto paradigma produttivo.
La centralità della persona deve essere il segno del riconoscimento dell’uguaglianza di tutti ma non deve negare la straordinaria diversità di ciascuno, in quello che sarebbe altrimenti un’omologazione cieca. Ciascuno deve avere la possibilità di dire e fare, sviluppando idee in prima persona, rendendole energia collettiva operando all’interno di una comunità. Di ciascuno deve essere la possibilità di una realizzazione propria cogliendo il senso pieno di un bene comune da tutelare che è la società tutta.
Il Partito Democratico deve riappropriarsi della parola libertà, una libertà dei moderni che sappia relazionarsi con responsabilità, solidarietà e uguaglianza. In una dimensione empatica e per una sintesi superiore che riesca a riannodare i fili spezzati di una libertà -sequestrata dalla destra- interpretata soltanto come la chance di assecondare gli istinti di un individualismo esistenziale e sociale, inevitabilmente in conflitto con l’obiettivo del bene comune e dell’interesse generale. Come scriveva John Donne:
“Nessun uomo è un’Isola,
intero in se stesso.
Ogni uomo è un pezzo del Continente,
una parte della Terra”
ed è di questa visione di insieme che dobbiamo riappropriarci. È il protagonismo di ogni donna e ogni uomo al servizio delle proprie idee e in una dimensione di reciprocità e solidarietà.
Sul piano più strettamente economico, occorre definire un progetto di sintesi tra economia e politica che non sia semplicemente un ritorno allo Stato, e contrasti l’illusione altrettanto regressiva di un abbandono al mercato. Dobbiamo guardare all’economia della persona e della comunità, di cui Adriano Olivetti fu precursore. Un‘economia che non sia più quindi di parte ma condivisa tra i protagonisti di un progresso sostenibile come gli imprenditori, gli imprenditori sociali (o a movente ideale per usare una felice espressione di Luigino Bruni) e gli amministratori del bene comune.
Questa strada, ancora tutta da tracciare, va percorsa relazionandosi con la natura in un approccio di reciprocità, con azioni e comportamenti sostenibili dal punto di vista ambientale, economico, sociale. In un contesto in cui la tragedia di Fukushima, evidenziando i rischi della meccanizzazione e della trasformazione artificiale della vita, ricorda che il rapporto tra Tecnica e Persona va invertito a favore della Persona. Occorre ripensare il welfare in un tempo in cui la crisi economica e il cambiamento demografico non devono pregiudicare la tutela dei più deboli e l’affrancamento dal bisogno. Alla strategia, più citata che praticata, del long life learning, che dovrebbe assicurare adattabilità e occupazione ai lavoratori, occorre accompagnare sistemi di sicurezza sociale che supportino il reddito, incoraggino l’occupazione, agevolino la mobilità lavorativa. L’uguaglianza che vogliamo deve riguardare anche le prestazioni previdenziali che non possono continuare ad essere disomogenee per nessuno.
Ma il Paese che vogliamo deve essere un’Italia che può essere giovane, in cui chi decide di avere un bambino possa essere incoraggiato dalla presenza di asili nido, servizi di cura e sostegni pubblici.
L’Italia può ripartire se guarderemo all’Italia viva, fatta dalle esperienze e dalle idee migliori, di quanti vanno avanti nonostante la crisi e mettono in campo il massimo della creatività per riuscire oltre le difficoltà, dall’incredibile risorsa rappresentata dal terzo settore e dalle esperienze associative che garantiscono vicinanza e supporto in ogni territorio e in ogni città, dalle idee forti sul turismo e sull’agroalimentare, sulle innovazioni delle nostre imprese migliori.
La finanziarizzazione dell’economia, dentro un processo distorto ed incompleto di globalizzazione, ha segnato il primato della finanza sulla politica e, dunque, del mercato sulla democrazia. L’alleanza larga che può garantire tutele per i singoli e governo dei processi è nel patto sociale di convivenza che dovrebbe essere l’Europa: uno spazio pubblico di cittadinanza ed uguaglianza, istituzioni forti e un indirizzo politico chiaro, l’attenzione alle dimensioni locali e alle aspirazioni diffuse, uno spazio di eguali opportunità tra diversi e non un tentativo di omologazione.
Ed è dentro una prospettiva europea e globale in Italia occorre ridare centralità al Mezzogiorno, dove ci sono margini di crescita più elevati che nel resto del Paese, favorendo l’internazionalizzazione delle specificità e delle eccellenze meridionali e puntando sul Sud quale volano per l’uscita dalla crisi.
Per stare dentro processi complessi e per affrontare processi transnazionali non possiamo però pensare in solitudine. Se è nella politica che cerchiamo un senso ed una rotta nuova allora solo una visione larga, internazionale, europea può dare la possibilità di indirizzare il futuro. Solo una forza politica europea, un’alleanza grande di persone e idee può invertire il rapporto tra mercato e politica. Questa forza è il Partito Socialista Europeo e l’adesione piena, inevitabile, del PD è una scelta non formale, ma coerente con l’idea di Italia e di società che abbiamo. È una scelta conseguente di partecipazione e definizione, qui ed ora, per sviluppare idee di politica e proposte di governo.
Un futuro che vale è il tempo plasmato dal riconoscimento del valore di ciascuno e dalla chiamata di ogni donna ed ogni uomo a partecipare alla vita pubblica. L’essere propriamente se stessi e propriamente parte di una comunità sarà nell’espressione di scelte e decisioni che non potranno essere limitate ai momenti elettorali.
Insieme dobbiamo affermare e difendere i diritti e la libertà di essere, nel rispetto di tutti; cattolici, ortodossi, protestanti, ebrei, mussulmani e laici, migranti e residenti, giovani e anziani, omosessuali ed eterosessuali, donne e uomini, studenti, imprenditori, liberi professionisti e dipendenti, volontari e lavoratori. Per farlo occorre riconoscere valore e dignità ad ogni persona, rafforzare la cultura e le competenze, garantire parità di genere, affermare un nuovo senso civico come patrimonio pubblico da promuovere.
Per ricostruire il nostro Paese, dobbiamo saper governare il nostro Paese. Avere una vera cultura della programmazione coesa che, nel rispetto e nell’auspicio di una sempre maggiore reciprocità e integrazione tra i diversi livelli di autonomia dei territori e delle funzioni possa consentire di condividere obiettivi e strategie di medio- lungo periodo con progetti e realizzazioni di immediata realizzazione, pur consapevoli dell’impossibilità di prevedere tutto, ma senza mai dimenticare la meta verso la quale tendere.
Daremo prospettiva alle speranze di milioni di italiani se sapremo coniugare giustizia sociale, sostenibilità ambientale e competitività economica come temi che si rafforzano a vicenda. Potremo aspirare al governo del Paese e riuscire con successo se offriremo una politica capace e sobria, se coniugheremo bisogni e meriti, libertà e solidarietà, se garantiremo l’accesso ai servizi pubblici e la tutela dei beni comuni, se riconosceremo veramente a tutte e tutti i diritti civili e sociali.
Vogliamo per questo vivere il presente come l’opportunità che deriva dalla Resistenza e dalla Liberazione, come l’occasione derivata da una scelta consapevole di singoli che si fecero esperienza collettiva.
Vogliamo però sentire la responsabilità della nostra sfida, personale, collettiva, nazionale, europea: ribaltare il rapporto tra mercato e democrazia, tecnica e persona, egoismo e solidarietà.
DECIDERE LE PRIORITÀ
Dobbiamo ritrovare il desiderio di credere nel nostro futuro e in quello dei nostri figli.
In Italia, ogni bambino che nasce riceve in dono da quanti lo hanno preceduto un debito di circa trenta mila euro. Va trovata una nuova etica della responsabilità e insieme una determinazione concreta nel favorire il cambiamento. Non è il momento della demagogia, ma del coinvolgimento attivo delle persone, confrontandoci sulla messa a punto delle cose da fare e quindi realizzarle. Le politiche per la società richiedono alla politica, ai governanti, agli operatori economici e a quanti hanno una qualche responsabilità nella vita di una nazione, un’attitudine particolare: riuscire a tener conto del futuro disponendo per il presente.
IL VALORE DELLA CREATIVITÀ
Molti considerano l’Italia il Paese più bello del mondo. Le nostre ricchezze culturali sono le fondamenta sulle quali abbiamo costruito da millenni lo sviluppo dei nostri territori e sono l’unico bene comune che non è delocalizzabile e riproducibile. Per il nostro Paese sarebbe dunque una scelta strategica naturale puntare sulla cultura, integrando arte e paesaggio, turismo e ambiente, agricoltura e artigianato. Questa combinazione di elementi trasforma le nostre risorse culturali in ricchezza per la nostra economia, compensando così i deficit strutturali, soprattutto nell’energia e nelle materie prime alimentari, che oggi non siamo in grado di coprire adeguatamente. L’integrazione possibile tra beni culturali e comunità locali rafforza enormemente il valore collettivo di cui disponiamo attraverso l’esperienza stessa del vivere e condividere quanto c’è di bello e di buono del nostro Paese.
Di recente nel saggio “Cultura. Punto e Accapo” un gruppo di tecnici operanti in diversi settori della cultura ha proposto un disegno di insieme per un rinnovamento del sistema cultura in Italia individuando alcuni principi ispiratori. La creazione di modelli di sviluppo a base culturale frutto della collaborazione tra istituzioni e imprese, la riorganizzazione del sistema centrale e locale di governo della cultura, nuovi strumenti normativi con una concezione integrata e flessibile, nuove fiscalità e verificabilità dei
risultati attesi sono gli strumenti dei quali dotarsi urgentemente.
Le nostre città sono vere e proprie officine creative. Foreste urbane che in Europa sono un unicum tra centri storici, città consolidate, periferie disperse e territorio. Città “fatte di carne e non di calcestruzzo” – come afferma Glaeser – dimensioni complesse e dense di connessioni e scambi che, in molti casi, hanno saputo rilanciarsi, anche sotto il profilo sociale e economico, grazie ad un circuito virtuoso tra università, ricerca, innovazione, cultura, spettacolo, turismo. Lungo questa strada bisogna procedere per rilanciare e riqualificare il fattore culturale nel Paese. Bisogna dare spazio alla creatività insieme all’affidabilità ed è indispensabile favorire la partecipazione attiva dei cittadini, delle associazioni, delle fondazioni di origine bancaria, del volontariato e delle imprese. La cultura va liberata e resa motore di sviluppo.
Il PD deve cercare di costruire una rete di operatori del settore e riscoprire il legame con gli intellettuali del nostro tempo, senza timore di esplorare nuove possibilità, senza tentazioni elitarie, considerando la mediazione che solo i tanti militanti possono gestire tra la proposta politica e la società. Va trovata una forma di relazione e mobilitazione tra idee che sia architettura del pensiero di una comunità che è il partito e offerta di discussione alla società tutta.
Proprio in tempo di crisi non va sprecato il talento umano e non va squalificata la partecipazione dei cittadini. Il lavoro creativo deve riacquisire valore e va considerato uno stimolo alla crescita economica, investendo nella creazione di posti di lavoro nei settori creativi. Tutto questo vuol dire formazione, studio, ricerca, libertà di pensiero.
Bisogna incoraggiare la creatività nell’arte, nella letteratura, nella scienza, nell’architettura, nel design, nel cinema, nella musica, nello spettacolo, nella moda, nell’artigianato e nell’enogastronomia, nella diffusione e nella divulgazione della cultura scientifica. L’Italia può essere avanguardia per quanto riguarda la tutela del paesaggio, la sicurezza dei beni culturali e per l’accoglienza dei diversamente abili, degli anziani e dei bambini.
L’arte e la cultura sono un linguaggio capace di affrontare la sfida più difficile che l’Europa deve affrontare: quella dell’integrazione fra paesi, popoli e culture diverse. Un nuovo modo di impostare la relazione tra cultura e crescita sarà la chiave di volta per favorire la coesione sociale.
Non c’è investimento e non c’è progresso se non c’è innovazione. L’innovazione sostenibile è il futuro del nostro Paese. E l’innovazione è non tanto tecnologia, ma sopratutto dimensione applicativa di una buona idea. L’innovazione può essere la base per un nuovo paradigma della società italiana e si dovrebbe progettarne la disseminazione, eliminare l’ignoranza digitale, riconoscere esplicitamente l’economia della conoscenza, sviluppare il mercato dell’open innovation curando la crescita della capacità delle imprese di innovare valorizzando le specificità italiane, mettere in rete l’intera filiera dell’innovazione fatta da università, imprese, credito e territori. Il valore della creatività è la leva del cambiamento.
Da troppi anni ci siamo fermati in attesa di trovare la formula magica che ci consentisse di risolvere tutti i problemi sociali e economici focalizzandoci solo su leggi, norme, leve e temi finanziari, senza considerare adeguatamente quanto cultura e creatività ci potessero dare e aiutare. Cultura è sviluppo, ma è anche chiave di accesso ad un’idea complessiva di sostenibilità ed interazione, attraverso la capacità di pensare criticamente il circostante.
PER L’ECONOMIA CIVILE
Dobbiamo cambiare il paradigma che ci ha portati dentro la crisi. Per una forza politica del cambiamento vuol dire sperimentare un approccio e ricerca di una prospettiva. È tempo di interpretare il presente vedendo gli aspetti ambientali, economici, sociali, istituzionali e culturali al centro di una nuova visione nazionale ed internazionale. Una visione innanzitutto compatibile e fondata sui valori dell’uguaglianza e della reciprocità tra persone e con il contesto nel quale vivono. Una visione che renda possibile che interventi, produzioni, servizi e attività umane siano ambientalmente compatibili, economicamente sane, socialmente giuste, istituzionalmente adeguate e culturalmente di qualità.
Va ricercato un progresso, ricordandone la definizione che ne diede Pasolini negli anni ‘70, e non uno sviluppo che è vede solo crescite quantitative fino alla distruzione annunciata.
Come presupposto di fondo occorrerebbe divenire tutti consapevoli, in Italia e nel mondo, di avere un destino, un’identità ed un’origine comune valorizzando l’essere e non l’avere. Per questo è necessario realizzare una politica ispirata alla coesione per vivere in un Paese sostenibile. Però neanche abbiamo ancora indicatori che misurano la sostenibilità e quindi siamo in grado tanto meno di poterla programmare e progettare. Dobbiamo agire subito.
Possiamo guardarci intorno e cogliere i nuovi riferimenti possibili. L’uguaglianza di opportunità tra donne e uomini, la parità tra i generi, ha confermato, guardando ai paesi del Nord Europa, che l’integrazione tra le caratteristiche femminili e maschili consente di gestire in modo migliore i processi di governance e di sviluppo. L’integrazione tra le identità culturali delle persone riconosce nella convivenza tra le culture e le tradizioni una base più solida e complessa di riferimento per un progresso sostenibile e per una felicità di tutti.
Possiamo cercare frontiere avanzate per pensare la costruzione del futuro, abbiamo il dovere della ricerca. Dai nostri valori discende un’idea di società possibile, un’idea di crescita e quindi di sostenibilità. Oggi è il tempo dell’economia civile e del post- capitalismo. Si possono promuovere nuove forme di mercato basate sulla reciprocità e sulla ri-scoperta del dono e della gratuità delle persone, rafforzando il concetto di bene comune. Sosteniamo la necessità di reinventare il capitalismo e innescare una nuova crescita, creando valore condiviso per ripartire. Integrando il concetto di progresso economico con quello di progresso sociale, dove è l’intera società attuale (pubblico e privato, amministrazione pubblica, imprese private, imprese sociali) che deve rivisitare le attuali posizioni e le interazioni in atto, considerando il progresso come un obiettivo unitario ed integrato e non come prodotto di una lotta tra opposte concezioni, tra permessi e licenze, tra profitto e rendicontazione sociale.
Si iniziano ad intuire alcuni possibili nuovi percorsi, nuovi comportamenti, nuove fedeltà. Collaborazione, empatia, assertività sociale, qualità, costruzione di reti, sistemi, integrazione, indipendenza sono alcune pietre di queste strade ancora da costruire. Sono gli scenari di riferimento per la nostra visione del futuro.
Jeremy Rifkin sintetizza i vantaggi di fare rete, come “la spontaneità e la creatività che ‘germogliano’ in un ambiente cooperativo [...] facendoci rendere conto in ogni campo
che possiamo ottimizzare [...] il risultato desiderato attivando le reti di relazioni e non più la proprietà del nostro individualismo”. Una prospettiva che potrebbe significare una sorta di economia condivisa, dove i protagonisti della produzione di beni, servizi e di esperienze sono imprese profit e quelle a movente ideale, che condividono insieme alle amministrazioni pubbliche programmi e obiettivi per poi suddividere responsabilità e compiti, in un ambiente competitivo e collaborativo insieme.
Per avere chiara la prospettiva, oltre le parole abusate con semplicità nelle parole di ogni giorno, è compito della sinistra ritrovare il significato di bene comune, troppo spesso affiancato a quello di bene pubblico. Ci giochiamo un concetto che alla base per la ricostruzione del Paese, ma anche per lo sviluppo dell’Europa. I beni comuni “sono e saranno beni utilizzati contemporaneamente da tanti, da tutti in alcuni casi, e che sottostanno a leggi ben diverse da quelle che regolano la produzione ed il consumo dei beni privati, quelli studiati dalla scienza economica in questi due secoli” (L.Bruni). Salvaguardare l’uso dell’acqua, dell’aria, del suolo, ma anche del paesaggio, del patrimonio culturale e artistico e delle città e dei territori nel loro insieme, lo spazio dei diritti dell’uomo e dell’agibilità democratica di ciascuno, monitorandoli e mettendoli in sicurezza.
Ma allo stesso modo salvaguardare le persone. Si può dare equilibrio alla gestione delle nostre comunità – nelle imprese, nelle amministrazioni pubbliche, nei movimenti e nelle associazioni- attraverso una giusta e competente parità di genere, di età e di culture, e sottoscrivere idealmente un nuovo patto generazionale che sia fondato sulla qualità e sull’innovazione dei cervelli e delle idee.
Ed è così che la prospettiva di un partito del cambiamento sta nel pensare la difesa dei beni comuni, una crescita che sia spinta al progresso sociale, la capacità positiva di interazione tra eguali e la necessità di uscire dalla crisi migliorando la qualità della vita di ciascuno. Si può progettare una rivoluzione non cruenta per un benessere sostenibile.
CONTRO LA DISEGUAGLIANZA
Oggi uno dei principali avversari che abbiamo di fronte è la diseguaglianza. L’aumento delle diseguaglianze in Europa e in Italia è il frutto di numerosi fattori tra i quali l’avanzata tumultuosa della grande finanza. Ma c’è anche una perdurante distanza territoriale tra Nord e Sud. Ciascuno deve sentirsi uguale ed avvertire davanti a sè lo spazio delle possibilità.
Il Partito Democratico è la più grande forza libera, democratica, progressista di questo Paese, è il partito che deve collegarsi alle migliori esperienze socialdemocratiche e laburiste d’Europa ed è nella coerenza di questo percoso che vanno contrastate in maniera netta, chiara e convincente le storture di questo sistema economico. Politiche in favore dei più poveri e investimenti pubblici significativi nelle capacità delle persone -su ricerca, istruzione, salute e abilità lavorative- possono espandere l’accesso a occupazioni dignitose e preparare un orizzonte migliore. La piena occupazione di qualità è alla base della nostra agenda e di una strategia più ambiziosa di sinergia tra occupazione, stabilità e competitività. Mercati del lavoro più dinamici e inclusivi, politiche attive per il mercato del lavoro e salari minimi decenti devono essere le priorità del PD nella lotta alla povertà.
Dobbiamo saper scoprire l’uguaglianza delle capacità, così come inteso da Amartya Sen, e dare risorse alle persone per fare in modo che migliorino qualità della propria vita. Ciascuno ha una capacità diversa di trasformare beni e servizi in spazi effettivi di libertà e quindi non è sufficiente concentrare l’azione pubblica nella dotazione alle persone di beni primari. Come spiega Paolo Venturi, esperto di impresa sociale ed innovazione, per ricostruire una società più equa oggi possiamo distinguere tra politiche orientate al benessere e quelle indirizzate alla promozione delle capacità. Mentre le prime intervengono sul bisogno, le seconde –come gli interventi nella scuola e nella ricerca- agiscono sulle cause che impediscono alle persone di produrre o di liberarsi dalla povertà.
Salvaguardare le persone significa sopratutto avere un welfare innovativo, che punti ad adeguare l’assistenza sociale e sanitaria ad un ciclo definito di risorse, mantenendola come caratteristica del nostro sistema di vita comune e rivedendo il modo di interagire tra pubblico e imprese sociali nei servizi di prossimità. Il cambiamento demografico, dovuto all’allungamento dell’aspettativa di vita e ai bassi tassi di natalità, richiede di contrapporre una risposta riformista a chi propone di smantellare la conquista del welfare state. Il modello sociale europeo va preservato ma va anche innovato. Una proposta politica responsabile deve tenere conto che già nel 2050 avremo solo due persone in età lavorativa per ogni persona over 65.
Occorre mettere in campo politiche coraggiose per le famiglie e per la natalità, che nel nostro Paese occupano uno spazio minore della spesa per il welfare rispetto agli altri Paesi europei.
Il danno è duplice: da un lato meno bambini, dall’altro meno genitori nel mercato del lavoro. Noi vogliamo meno pensioni d’oro, ma più bambini e più genitori che lavorano. Bisogna, inoltre, rinnovare l’impianto delle tutele, universalizzandole e rendendole omogenee per i lavoratori atipici e per i lavoratori del sommerso. La strategia da attuare per conciliare tutela del lavoro e competitività economica è quella indicata già a livello europeo e sperimentata con successo nel nord Europa, che propone di conciliare esigenze del mercato del lavoro e tutela dei lavoratori.
In Italia oltre il 38% dei giovani attivi è senza lavoro. Il sistema di istruzione- formazione ben poco innovativo è tra le principali cause, insieme a un welfare molto rigido, quasi totalmente centrato sulla protezione dei cosiddetti insiders. E oggi la situazione appare sempre più complessa, vista la costante crescita degli scoraggiati, quelli che il lavoro non lo cercano più. Sono fenomeni largamente diffusi in tutto il territorio nazionale e non solo al Sud. In più nel 2012 si è registrata una ulteriore riduzione della quota di occupati nelle professioni ad elevata specializzazione. A tutto ciò si aggiunge poi il tema endemico della sottoccupazione. Oltre la retorica lo Stato deve varare un piano integrato di azioni nei campi strategici dell’economia. Investimenti nelle professioni creative, il miglioramento delle reti distributive di digitale, gas, luce e acqua, l’ammodernamento del sistema viario e ferroviario, un sistema valido di telecomunicazioni, un moderno ciclo di smaltimento dei rifiuti e per la produzione di energia pulita, lo sviluppo del settore turistico unitamente ad un sistema veramente efficace di sostegno alle startup sono l’unica strada per coniugare aumento dell’occupazione e una concreta prospettiva di sviluppo per la nostra economia.
Crediamo nell’introduzione del reddito minimo garantito, così come auspicato dal Parlamento europeo, in politiche di accesso alla casa per i più giovani e guardiamo alla proposta del governo francese sul contratto generazionale per provare ad invertire la tendenza drammaticamente in crescita della disoccupazione giovanile. Serve infine un rapporto più stretto tra università e lavoro, tra domanda ed offerta, un migliore orientamento delle scelte di formazione anche verso indirizzi di studio più funzionali alla crescita del Paese. Serve un cambio di rotta che faccia sì che nel nostro Paese flessibilità non sia sinonimo di precarietà, che stage non si traduca in anni di sfruttamento, che autonomia non sia solitudine. Crediamo che lavoro e conoscenza debbano essere intesi insieme, perchè solo insieme hanno il significato della libertà.
Gli investimenti per oggi e domani vedono però l’urgenza anche di ritornare a valorizzare la scuola, l’università e gli enti di ricerca, accrescendo le risorse e la relativa efficienza ed efficacia.
La situazione del sistema d’istruzione italiano è una priorità nazionale. Il punto di partenza deve essere la consapevolezza di abbandonare la frammentazione e la settorializzazione delle conoscenze incapaci di farci comprendere e stare bene nell’ambiente in cui viviamo. E insieme il nodo di una educazione civica contemporanea, per essere pienamente cittadini italiani ed europei, attraverso il rispetto, la solidarietà, il senso della partecipazione e della fiducia reciproca.
Viviamo in un Paese dove il tasso di laureati è estremamente basso e dove più si studia e maggiore è il tasso di disoccupazione. Si tratta di un fenomeno che si riscontra solo in Grecia e Turchia tra i paesi dell’OCSE. Dobbiamo incentivare di più la mobilità degli studenti attraverso il programma Erasmus che in questi anni ha contribuito a formare milioni di cittadini europei. Ma la necessità immediata è mobilitare la fiduciare nel futuro ed il talento, garantire mobilità sociale e fare del percorso formativo di ciascuno la possibilità di realizzare le proprie aspirazioni.
Perciò servono risorse e contenuti progettuali adeguati ai tempi per scuola ed università e per questo una riduzione della spesa militare – sulla falsa riga di quanto Francia, Spagna e Germania hanno fatto negli ultimi venti anni – del 10% potrebbe trasferire al sistema di istruzione circa 13 miliardi di euro in cinque anni.
È SEMPRE LA CULTURA CHE DECIDE DELL’ECONOMIA E NON VICEVERSA
La crescita della ricchezza nazionale è il problema cruciale e da troppi anni è insufficiente e inadeguata per una vera prospettiva di sviluppo del Paese. L’economia gioca il suo ruolo fondamentale, in una fase storica sentita ancora e sopratutto come di crisi di sviluppo economico. Una fase dove si sono persi ben 200 milioni di posti di lavoro. Anche se – come afferma Giulio Sapelli – è sempre la cultura che decide dell’economia e non viceversa, la crisi può essere superata solo creando le basi di una nuova crescita mondiale, europea e italiana fondata sulla manifattura e sulla creatività e non sulla finanza. L’Europa deve convincersi che non basta una politica di austerità. La relazione negativa tra alto debito pubblico e bassa crescita è tutta da dimostrare e non ha nessuna base scientifica come hanno invece dimostrato Krugman, Stiglitz e lo stesso Sapelli. Subito, se vogliamo tornare a crescere, attraverso la riduzione degli sprechi, occorre ridurre le tasse sul lavoro e sull’impresa, individuando fonti come la cartolarizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e l’offerta di titoli di stato a chi può, e investendo nei settori essenziali quali infrastrutture, nuove tecnologie, meccatronica, digitale e non solo, attraverso uno Stato innovatore, stratega e dirigente, ricordando anche il ruolo che ebbe nel dopoguerra per il nuovo sviluppo italiano. Il salto culturale da fare, insomma, deve condurre il principale partito della sinistra italiana ad interessarsi non solo della distribuzione ma anche della produzione della ricchezza.
Nella nostra prospettiva la crescita economica ha senso soltanto se contiene in sé un’inversione dell’andamento della disuguaglianza. Cedere quasi completamente la leva fiscale (la politica che influisce sulle dinamiche economiche) a vantaggio dell’esclusiva leva monetaria (le banche e la finanza che decidono sull’accesso alle risorse e sulla loro distribuzione) è inaccettabile. Concentrare sforzi e investimenti pubblici sulle dotazioni infrastrutturali e sociali necessarie a sostenere efficacemente la crescita dell’economia produttiva è strutturalmente necessario ed opportuno anche in relazione al sostegno della domanda interna.
Oggi il quadro è un po’ disallineato. Il governo europeo della moneta non ha corrispondenza in un governo europeo della fiscalità, con il risultato di disallineamenti ancora più accentuati e forti che non lasciano via d’uscita agli stati nazionali con elevati livelli di debito pubblico. La riduzione del debito è un obiettivo prioritario, con la riduzione delle spese mirata e non lineare, da perseguire soprattutto nelle fasi di crescita. Perché la riduzione del debito può essere perseguibile soltanto in un quadro di sostenibilità sociale e di equità. A questo non giova il fatto che la fiscalità sulle rendite finanziarie, sia pur recentemente modificata, ci vede ancora come il Paese più generoso, anche con riferimento agli investimenti speculativi. Mentre nella tassazione sul lavoro siamo di gran lunga il Paese più severo.
D’altro canto, si comprende quanto possa essere difficile negoziare interventi a favore della crescita se non si ha un’idea precisa di cosa si vuol realizzare e per quali risultati. E’ molto più importante scegliere e condividere strategicamente le traiettorie di sviluppo che le diverse aree del Paese possono ragionevolmente percorrere sulla base della maggiore dotazione di assets umani, fisici e geografici che ne determinano la competitività internazionale, e da quelle partire. Come ad esempio il turismo, i beni culturali e ambientali, i nostri fattori naturali di successo. Il nostro patrimonio tangibile. Un patrimonio che, non solo va salvaguardato, ma va anche valorizzato, insieme a quello enogastronomico, per rendere ancora più competitivo il nostro Paese.
Tanti sono i comparti e i settori, praticamente tutti, che concorrono ad incrementare la produttività, e dunque la competitività del sistema Italia. Pubblica amministrazione, imprese e imprese sociali sono e tanto più devono diventare i pilastri sui quali costruire una proposta politica per dare una nuova prospettiva per l’Italia.
La scarsità delle risorse economiche ed ambientali ci deve portare a condividere tra istituzioni programmi ed obiettivi massimizzando i benefici degli interventi e minimizzando i relativi costi ed evitando sovrapposizioni di competenze e ruoli.
Le organizzazioni a movente ideale possono oggi, interagendo con le amministrazioni pubbliche, condividere funzioni garantendo prossimità. Al terzo settore e al volontariato deve essere finalmente riconosciuto istituzionalmente un ruolo sociale ed una capacità di sviluppo che è già nei fatti. Dovrebbe essere garantira la massima la libertà di associazione, la partecipazione e la trasparenza, armonizzando le leggi nazionali e regionali, riprendendo il ruolo positivo esercitato dall’Agenzia
Terzo Settore purtroppo soppressa e riformando le norme sull’impresa sociale, evitando tentazioni lucrative e stabilizzando il 5 per mille effettivo.
L’Italia dovrebbe prevedere un’iniziativa saldamente ancorata all’Europa, che promuova – come proposto dal Comitato Economico Sociale Europeo– un Programma europeo di azione sociale che si basi sugli obiettivi di Europa 2020. E già in questa direzione può essere orientato un efficace uso dei Fondi Strutturali 2014-2020.
Le organizzazione di Terzo Settore offrono un contributo importante e hanno un ruolo rilevante nella costruzione economica, occupazionale, civile, morale del nostro vivere comune. È per la vocazione civica e solidale, per la capacità di coinvolgimento, di costruire legami sociali, leggere i bisogni e costruire risposte concrete attraverso l’autorganizzazione delle persone. Nelle difficoltà dei nostri giorni, i partiti politici ed i sindacati perdono credibilità e capacità di incidere, restano progionieri di dinamiche interne e dell’incapacità di ridefinire la propria funzione sociale. Mentre volontariato e Terzo Settore crescono come argine alla frammentazione sociale e si presentano come attrattori di partecipazione, laboratorio dell’innovazione di welfare, cantiere di nuova cittadinanza democratica.
Il bisogno di partecipazione è forte, è chiaro. I dati di partecipazione e popolarità del terzo settore sono in crescita negli ultimi anni. La volontà di poter fare per sè e per gli altri si scontra con l’incapacità della politica organizzata di ritrovarsi attuale e si muove verso spazi differenti. È il miglior segnale di come non ci sia oggi da difendere il recinto chiuso della politica di fronte alla sfiducia e alla disillusione. Bisogna aprire ogni spazio e lasciare che lo scontro delle idee e dello scontento sia impietoso e produttivo. A noi che dovremo rigenerare il Partito Democratico starà il compito di dare metodi e forme nuove alla proposta politica, senza il timore di perdere identità. Nostra sarà l’incombenza di una fiducia nuova da restituire. Nostra sarà la responsabilità urgente di consegnare un’idea concreta di buona politica.
La Pubblica Amministrazione, da tutti considerata una delle realtà più problematiche del Paese, costituisce uno dei settori più rilevanti, oltre che in termini di peso economico, anche per il possibile riscatto del Paese dalla condizione in cui si trova. È il riscontro tangibile del livello di democrazia e vivibilità di una società. Una vera valorizzazione è indispensabile per l’erogazione di servizi pubblici a imprese e cittadini da recuperare ad accettabili livelli di efficienza e di efficacia per concorrere alla crescita della ricchezza nazionale. Un progetto che passa solo ed unicamente dalla definizione di obiettivi chiari e innovativi, senza cedere alla semplificazione dei presunti piani industriali copiati da strategie imprenditoriali con il solo fine di tagli indiscriminati della spesa. Per questo occorre agire su tre fronti: sulla semplificazione amministrativa a partire dalla digitalizzazione della Pubblica Amministrazione e coordinando le competenze nazionali e locali; sulla programmazione integrata da parte di comuni, province, camere di commercio, regioni e dello stato; sulla migliore organizzazione dell’amministrazione secondo programmi, progetti ed obiettivi comuni tra i livelli territoriali.
Nell’emergenza della ricostruzione, dobbiamo saper affrontare i temi cruciali per lo sviluppo del sistema imprenditoriale, con un’attenzione particolare alle micro, piccole e medie imprese che rappresentano il 98% delle imprese attive nell’industria e nei servizi e che danno lavoro a otto milioni e mezzo di italiani. Vanno promosse le start up innovative, sulle quali si può puntare di più, con maggiore volontà di cogliere prospettive, e le imprese manifatturiere (il settore più grande con il 23% di addetti) in quanto spina dorsale presente e futura del nostro sistema produttivo. Accanto al sistema manufatturiero l’agricoltura ed il turismo dovrebbero essere le realtà sulle quali è possibile investire immediatamente. Il turismo è uno dei pochi settori al mondo in costante crescita e l’offerta dell’Italia, pur rimanendo fortemente attrattiva, perde terreno per mancanza di organizzazione di sistema e mancanza di investimenti. Un’attenzione particolare andrebbe data alla promozione delle imprese italiane all’estero, facilitando l’accesso ai fondi, e all’attrazione di imprese e investitori in Italia, compresi quelli italiani che hanno spostato la produzione all’estero e che andrebbero incentivati a tornare calcolando il beneficio dell’aumento dell’occupazione.
Ma quali leve muovere per consentire alle piccole e medie imprese, sopratuttto del Mezzogiorno, di andare verso una crescita adeguata? Considerata la grave crisi che sta imperversando, forse, vale la pena infrangere alcuni muri dell’inerzia e della retorica e provare a trovare nuove strade per crescere per un progresso sostenibile. e la capacità di fare rete tra imprese per competere su mercarci globali, la capacità di valorizzare identità e provenienza dei territori, integrare nel sistema produttivo donne e giovani, la produzione di beni e servizi sostenibili ambientalmente e socialmente, e infine semplificare semplificare semplificare, sciogliendo matasse di di norme e permessi che annichiliscono anche le migliori idee.
CAMBIARE UN DESTINO
Dalla crisi del modello di sviluppo neo-liberista, alla crescita delle disuguaglianze su scala planetaria, all’inquinamento del pianeta, la sfida dello sviluppo dell’Italia è anche sfida per il Mezzogiorno. Non può essere una semplice rincorsa a modelli che hanno funzionato altrove, ma è uno spazio di azione per misurare la capacità di valorizzazione dei beni comuni e dei beni collettivi peculiari della storia e del territorio, all’interno di un quadro di regole e valori condiviso su scala nazionale ed europea. Possiamo sperimentare un nuovo paradigma dello sviluppo sociale ed economico.
Bisogna far percepire la presenza di una risorsa comune tra le persone, per attivarne le esigenze di coordinamento e avviarne l’azione collettiva, nell’agire insieme di società locale, persone e contesto. E questo è il compito che deve assumersi una forza politica radicata sul territorio, con un’azione che è continua, ben connessa localmente ed a orizzonti e strategie di ampio respiro, e non confinata soltanto nel perimetro dell’azione amministrativa locale.
La questione meridionale, ancora così presente, ancora così urgente, va affrontata iniziando a distinguere le situazioni particolari e diverse che ne compongono il quadro. Nel Sud del Paese vi sono, infatti, realtà molto diverse tra di loro. E sarebbe sbagliato non differenziare le azioni indirizzate al Mezzogiorno: una lungimirante politica per il Sud deve imparare a selezionare le misure di politica economica, calibrandole sulle specificità dei contesti, delle vocazioni e delle potenzialità. Una lungimirante politica per il Sud, inoltre, deve puntare a responsabilizzare le migliori risorse che esistono in questa realtà del Paese, rifiutando interventi a pioggia che non producono gli effetti dichiarati. Nel Mezzogiorno ogni ingrediente è presente. Rispetto ai temi prioritari di crescita civile ed economica di una nazione le parole chiave per lo sviluppo sono da sempre note: infrastrutture e servizi pubblici a rete, Mediterraneo, legalità, istruzione e capitale sociale, questione urbana, competitività delle imprese, ambiente e turismo. Vista la rilevanza dei temi -e il basso livello nei risultati- il rischio che si può correre è quello di alimentare un dibattito che a tratti può risultare, ripetitivo, autoreferente, soprattutto se le statistiche ci offrono un quadro poco consolante. La politica non può più concentrarsi solo sulla quantità di risorse finanziarie da destinare, assegnando solo alle cifre allocate un valore di risultato in termini politici. Una politica per il Sud è politica per il Paese ed è politica che chiede visione e capacità di programmare.
Scegliamo di interrompere la storia di occasioni mancate e di scelte errate, non soltanto negli ultimi anni, ma già all’inizio dell’intervento straordinario. La storia di un pezzo di Italia condannato sempre ad inseguire un modello di sviluppo importato, quasi mai adatto alle sue caratteristiche.
Un adeguato ed equilibrato flusso di risorse ordinarie, più di quanto il senso comune sia portato a credere, e la certezza di risorse aggiuntive come previsto nel quadro di regole europee sono una componente fondamentale, necessaria, ma forse non sufficiente. Affinché si creino pienamente le condizioni per uno sviluppo del Mezzogiorno, che tenda a colmare il divario con il Centro-Nord non soltanto in termini economici, ma soprattutto in termini di infrastrutturazione civica, è necessaria una azione politica di coinvolgimento e partecipazione che spezzi l’atteggiamento culturale secondo il quale è solo compito del pubblico creare sviluppo e occupazione.
Questo è un impegno politico che un partito del cambiamento deve assumersi. Coinvolgendo con responsabilità le classi dirigenti locali su una visione condivisa dello sviluppo economico e sociale, per evitare quella sorta di schizofrenia che si genera intorno alle decisioni strategiche per il Sud, che spesso alla fine riesce soltanto ad avallare politiche distributive per rispondere ad interessi particolari. Allora, pur partendo dalle risorse manteniamo chiaro l’obiettivo finale: sviluppare in maniera equilibrata il Mezzogiorno d’Italia, per rilanciare l’intera Italia nel contesto europeo ed internazionale.Tuttavia, questo obiettivo può essere più facilmente raggiunto non trovandosi periodicamente a parlare di inefficienza della spesa e di rischi di disimpegno automatico delle risorse europee. Anzi proprio grazie a queste risorse, che devono essere realmente aggiuntive, e non sostitutive di quelle ordinarie, e per le quali il cofinanziamento nazionale obbligatorio è fondamentale che sia tenuto fuori dal calcolo per il patto di stabilità interno, nel Mezzogiorno si possono lanciare programmi importanti e significativi su alcuni temi cruciali per lo sviluppo dell’intero Paese e dell’Europa. Ma per far questo serve una classe dirigente locale coinvolta a cambiare un destino da inseguitori.
Possiamo lanciare da subito proposte in almeno sei aree di intervento su cui proporre programmi significativi: un piano di infrastrutture strategiche funzionali ad una traiettoria di sviluppo condivisa e partecipata (dove per esempio l’alta velocità ferroviaria diventi un opportunità e non solo una scelta di mercato); la centralità del Mediterraneo; Legalità e sicurezza, sviluppo delle città, competitività attraverso poche Zone Economiche Speciali sul modello polacco nelle aree di maggiore crisi industriale; ambiente, turismo, cultura come elementi territoriali specifici di sviluppo economico e di impresa.
L’obiettivo deve essere sviluppare una capacità di governo dal basso guidato dalle istituzioni ed in maniera cooperativa delle risorse comuni da parte dei cittadini. La logica dell’azione collettiva non è reattiva o rivendicativa, ma prima di tutto auto regolativa, al di fuori di un’alternativa secca pubblico-privato, che nel Mezzogiorno tende ad essere sempre e comunque a carico del pubblico.
Offrendo un quadro chiaro ed un orizzonte strategico condiviso bisogna favorire la capacità di adottare strategie cooperative con gli altri attori presenti sul territorio sviluppando maggiormente i rapporti di reciprocità. Il Sud ha bisogno di questo più che di altro. Per iniziare a percorrere traiettorie di sviluppo non ancorate soltanto alla rincorsa della riduzione del divario del reddito purchè sia, ma per avviarsi su una traiettoria di sviluppo peculiare, a partire dall’effettività concreta della cittadinanza di ciascuno. Il Sud è il banco di prova dell’azione politica. E la politica deve tornare a definire la politica economica a livello nazionale ed europeo, riportando la scelta dello sviluppo nella disponibilità democratica dei cittadini.
LA SOBRIA PROPOSTA DI CREARE UN POTERE DEMOCRATICO EUROPEO
L’adozione di politiche di austerità è un fallimento accademico, come ricorda Paul Krugman. Ed è un fallimento di governo, come dimostra la situazione dei Paesi della Zona Euro sottoposti a durissime cure di austerità. Un fallimento sociale, come dimostrano gli effetti delle politiche di bilancio restrittive che hanno ridotto il reddito disponibile causando una crisi drammatica e riducendo le entrate pubbliche.
Negli ultimi anni, la definizione della politica economica è stata sottratta alla deliberazione democratica. Bisogna oggi ribaltare la piramide di Maastricht: sono le istituzioni politiche che devono sorreggere e pilotare la politica monetaria dell’Unione. Per ragioni ideologiche sono state applicate politiche di austerità miope che, deprimendo le economie, hanno esacerbato il problema del debito pubblico. Per far ripartire la crescita in Europa, bisogna rimuovere l’ostacolo che impedisce alle nostre economie di svilupparsi. Il Patto di Stabilità è la camicia di forza dell’economia europea, figlio di un’impostazione contabile pericolosa. È fondamentale iniziare una revisione dei dispostivi alla base della politica di bilancio europea. La Banca Centrale va trasformata in banca prestatrice di ultima istanza e ne va modificato lo statuto introducendo un mandato duale che ponga come priorità non solo la stabilità dei prezzi ma anche il massimo livello occupazionale. Va ripensato il Fiscal Compact, escludendo gli investimenti dal calcolo del pareggio di bilancio. Nel breve periodo bisogna superare il limite del 3% nel rapporto tra deficit e PIL e questo può essere fatto con intelligenza, unicamente attraverso l’introduzione di una regola che permetta di scomputare gli investimenti produttivi pubblici dal calcolo del deficit. Possiamo promuovere una politica monetaria più coraggiosa e democratica. Serve una politica monetaria senza inibizioni, nel rispetto dei trattati, e consentire alla BCE di utilizzare in maniera discrezionale una linea straordinaria di liquidità (ELA, Emergency Liquidity Assitance) per finanziare riduzioni di imposte negli Stati membri e porre maggiore attenzione alla politica di cambio per evitare eccessive oscillazioni del tasso di cambio dell’Euro .
Bisogna inoltre aumentare le risorse proprie del Bilancio dell’Unione Europea, dall’1% all’1,5% del PIL.
La frattura fondamentale del nuovo millennio è quella tra grande finanza e democrazia. E la finanza va quindi imbrigliata, con la divisione tra banche di investimento e banche di deposito e una maggiore disciplina degli strumenti derivati. Così consentiremo a tutti gli europei di esprimere i propri bisogni e le proprie aspirazioni e alla politica di creare le condizioni democratiche di attuazione.
Se investiamo in Europa avremo allora un’Europa sobria e sostenibile, tollerante e inclusiva. Oggi è però necessario che gli Stati membri devolvano all’Unione Europa in modo unilaterale competenze in materia di ricerca, sviluppo e formazione, ma anche difesa, politica estera, ambiente e tutte quelle azioni che possono portare dei vantaggi economici ed efficienza a livello continentale. Il 2014 può essere un anno importante, di rilevanza costituente per cotruire un’Europa nelle mani cittadini, con Parlamento e Consiglio che possono diventare co-legislatori e la Commissione con un ruolo esecutivo.
L’Europa è una comunità di destino e può essere quello spazio pubblico dei diritti che abbiamo immaginato. Come scriveva Altiero Spinelli “La federazione europea era la sobria proposta di creare un potere democratico europeo” ed è questo spirito che va ricercato. Un potere autenticamente democratico, sottratto alla tecnocrazia, garante di uno spazio pubblico e del libero destino di milioni di donne e uomini. È la politica che deve guidare i processi e non essere travolta, ritrovando gli strumenti, non più solo nazionali, per disegnare un futuro che valga la pena di essere costruito.
La nostra cittadinanza è europea, autenticamente e convintamente. Perchè l’Europa è il luogo comune che abbiamo scelto per poter determinare politiche e governare la globalizzazione. L’illusione di restare soli all’interno di processi internazionali non può appartenere ad alcuno e tanto meno può appartenere ad una forza politica contemporanea.
Il Partito Democratico può essere esclusivamente un partito legato al Partito Socialista Europeo, la casa del progressismo, del riformismo e del laburismo, una casa comune che accoglie differenze e specificità, al di là di ogni facile schematismo, non una forza chiusa e definita. La scelta dell’adesione al PSE non è semplicemente una questione formale, ma è la sostanza del nostro essere europei in quanto forza collettiva, che richiede visione e coerenza di azioni anche a livello nazionale. Il nostro essere Partito del Socialismo Europeo vive nella richiesta di apertura delle istituzioni europee, nella contrarietà alle politiche di austerity che deprimono la crescita, nel contrasto alla forza della grande finanza internazionale, nel bisogno di uguaglianza che si avverte oggi in Italia, nel bisogno di tutelare libertà e diritti di ogni persona, nell’idea di sottrarre le vite delle donne e degli uomini alle fluttuazioni del mercato.
CONDIVIDERE IL FUTURO CHE VALE
Qui ed ora dobbiamo rigenerare il partito democratico, dargli un senso per dare un senso all’Italia, un progetto per il futuro degli italiani. Il congresso non è una strada chiusa, ma è l’opportunità di condividere la realizzazione di questo progetto, per tornare al servizio dei cittadini. Dobbiamo cercare ed usare gli attrezzi e gli strumenti per esplorare territori sconosciuti o perduti, coinvolgendo le donne e gli uomini del nostro Paese per costruire un futuro che valga la pena di essere desiderato.
SCEGLIERE LIBERI
Il Partito Democratico può essere volontà di partecipazione e condivisione, garanzia e difesa della libera scelta di ogni donna ed ogni uomo. Oggi la costruzione di una società di eguali è possibilità di integrazione dei cittadini, ciascuno nella propria complessità e nella propria libertà di essere.
Le democrazie liberali non sarebbero quello che sono senza le lotte per la libertà degli individui, condotte per due secoli dalle sinistre democratiche, socialdemocratiche e liberali nei paesi occidentali. Il rispetto della laicità delle istituzioni può garantire un terreno comune per l’integrazione e la pari dignità sociale di ciascuno. Il progetto culturale da promuovere è basato su un confronto fra diversità, mantenendo sempre ben chiari sullo sfondo quei diritti civili e costituzionali che sono presupposto di ogni democrazia.
Dalle grandi battaglie per i diritti civili degli anni settanta – divorzio, aborto, obiezione di coscienza e abolizione della leva, riforma del diritto di famiglia, abbassamento della maggiore età – che avevano prodotto una rivoluzione culturale del Paese ed un avanzamento elettorale del centrosinistra, i processi di modernizzazione nella società italiana, e con essi l’affrancamento da rapporti personali e sociali propri di una tradizione autoritaria e violenta, sono ulteriormente avanzati. Obama negli Usa e Hollande in Francia ben prima delle elezioni hanno inserito interventi sui diritti civili nel loro programma ed hanno vinto con largo margine. Ciò fa piazza pulita dell’idea, così diffusa anche nel nostro partito, che questi temi facciano perdere voti o, peggio ancora, che non siano strutturali. E’ proprio sulle questioni definite impropriamente eticamente sensibili che si gioca in larga parte la modernizzazione di una Italia che non è al passo del resto dell’Europa negli standard delle libertà civili. Se la creatività, come ci insegna Richard Florida, è ormai il nuovo fattore di sviluppo è bene sottolineare che non c’è creatività senza libertà, quindi non c’è benessere senza la garanzia dei diritti civili. Bisogna realizzare un’idea libera di società, capace di superare definitivamente la violenza e la sopraffazione verso le donne e verso le minoranze.
In una società costituita da donne e uomini, l’azione politica non può prescindere dall’attribuzione di potere e responsabilità alle donne nel senso di promozione delle donne nei centri decisionali della società, della politica e dell’economia. attraverso misure finalizzate ad eliminare e prevenire la discriminazione o a compensarne gli svantaggi, e che garantiscano il riequilibrio della rappresentanza di genere. Ma la sfida è nel progetto culturale perchè le politiche di genere per essere realmente efficaci necessitano, per loro stessa natura, di una cultura predisposta a recepirle.
Lo spazio pubblico può e deve essere contendibile da ogni desiderio legittimo, da ogni aspirazione, da ogni volontà di determinarsi e di voler partecipare ad una vicenda collettiva che è il presente ed il futuro della nostra società.
LA POLITICA DA RITROVARE
La politica è partecipazione. Ma politica è anche delega, fiducia, decisione. È persino dare e chiedere conto di una scelta. La politica da ritrovare è la credibilità per essere delegati alla rapresentanza, ma è anche coinvolgimento, ascolto e codecisione nella programmazione dei processi e nella gestione della cosa pubblica.
Lo spazio della politica è quello dell’incontro e dello scontro di idee, aperto a chiunque voglia essere attore del dibattito nella piazza integrata, fisica e virtuale, dei territori, dei movimenti, della rete. Dobbiamo vivere un cambiamento, essere forti delle nostre certezze, ma abbandonando postazioni di sicurezza, orientarci al servizio insieme alla proposta. Il processo è continuo e senza soste, per proporre, ascoltare, correggere e decidere e poi dar conto delle decisioni prese. Una politica responsabile ed affidabile, credibile nelle istituzioni, è chiara nell’indirizzo delle proprie scelte e crea senza timori le condizioni per una valutazione del proprio operato sul perseguimento di obiettivi e risultati, secondo vincoli ed aspettative.
Ora è il momento di dare segnali chiari, da tempo richiesti, che non sono tecnicismi, ma strumenti di riscatto della politica. Dobbiamo superare il bicameralismo paritario e ridurre il numero complessivo dei parlamentari. Portare i compensi dei parlamentari a criteri di sobrietà e di assoluta trasparenza.
C’è l’urgenza di un crescente dialogo sociale di principi e regole unanimemente condivisi quali i diritti fondamentali del cittadino, delle famiglie e delle imprese, la politica estera, la sicurezza nazionale, la politica ambientale, le grandi infrastrutture, l’approvvigionamento alimentare ed energetico che devono essere sottratte dalla logica della alternanza di governo. E bisogna consentire ai sedicenni e ai diciassettenni e agli stranieri residenti in Italia di esprimere il diritto di voto almeno nelle elezioni amministrative, perché la politica di oggi determinerà il loro futuro.
Infine possiamo rafforzare gli strumenti di partecipazione diretta di tutti gli italiani nati e residenti nei nostri territori e che vivono e lavorano all’estero e che sono la nostra principale rete nel mondo. Bisogna fare in modo che diventi una rete di cultura, di produzione e di sviluppo. Per questo è necessario una maggiore diffusione della cultura italiana e una maggiore efficienza dei servizi consolari, insieme ad una apertura dei termini per il riacquisto della cittadinanza di molti concittadini che l’hanno persa e che hanno l’orgoglio culturale di volerla. Il diritto di partecipazione permanente, sancito dall’articolo 49 della Costituzione, infatti, supera il diritto di partecipazione solo puntuale al momento del voto.
Ci sono ormai nel mondo centinaia di casi esemplari che possono definire la base di nuove norme che garantiscono una partecipazione più completa, non più figlia delle regole impostate nei primi dell’800, che vedevano nella garanzia della parola per tutti la dimostrazione di processi e decisioni democratiche. Un ascolto che sia interattivo e che faccia del “passaggio dalle posizioni agli interessi”, come afferma Leonard Susskind, il cardine per affrontare la complessità degli interessi e delle idee. In tempi certi e con decisioni definite democraticamente. E’ semplicemente un diritto. Perchè il cittadino è insieme proprietario etico della cosa pubblica e cliente dei servizi pubblici. E ad esempio dovrebbe essere naturale oggi cercare la diffusione di strumenti di trasparenza e partecipazione come il bilancio partecipativo. In questo processo di innovazione è evidente che sta ai partiti e alle parti sociali giocare il ruolo di sperimentatori. Ed è anche su questo piano, partendo dalle realtà locali, dalla pratica di vicinanza che ogni giorno muove gli amministratori o i dirigenti locali del PD, che si potrebbe provare a recuperare il terreno perso in questi anni.
Dovremmo però ritrovare fiducia reciproca e credibilità dentro il confronto pubblico e nella quotidianità della pratica politica ed istituzionale. Ed il primo passo è cambiare la legge elettorale, ridando il diritto di scelta ai cittadini e credibilità al confronto politico. Avremmo potuto farlo da tempo. C’è anche una nostra responsabilità in questa situazione, la responsabilità dell’essersi attardati nella non decisione.
Oggi attraverso il nostro impegno dovremo dimostrare sinceramente che l’orizzonte delle larghe intese è una fase transitoria e non più replicabile nella nostra vicenda politica. Il Partito Democratico è il partito del cambiamento e dell’uguaglianza, del riformismo e del progressismo europeo, lo spazio del PD è nell’alternativa alla destra. Non può essere diversamente.
NELLA CRISI DELLA RAPPRESENTANZA
Il risultato inaspettato e deludente delle ultime elezioni politiche ha mostrato i tanti nodi accumulati in questi anni di vita del Partito Democratico e ha finalmente svelato impietosamente le difficoltà della proposta politica del PD. Una difficoltà risultata evidente nel corso di vicende sciagurate come durante l’elezione del Presidente della Repubblica, con le elezioni mancate di Franco Marini prima e di Romano Prodi poi. I segnali di difficoltà del PD sono coerentemente inseriti in un’epoca di passaggio che ci mette davanti ad una profonda crisi di rappresentanza che è anche crisi delle forme organizzate classiche.
Ci siamo illusi per molto tempo probabilmente di essere rimasti gli unici ancora a riunirci in un partito solido e invece abbiamo realizzato di militare in un partito che è tanti partiti, in un soggetto che fatica a trovare una propria strada e che vive delle tante personalità che animano le decine di correnti interne. Dunque anche il PD è dentro la crisi dei partiti e, più in generale, dentro la crisi degli organismi deputati alla rappresentanza. Possiamo dire che è colpa di una credibilità dei soggetti pubblici e collettivi che è venuta meno, dell’ incapacità di interpretare la realtà attraverso la rappresentazione fissa di classi dirigenti sempre più rappresentative di una memoria passata e sempre meno del presente. Citando De Rita possiamo dire che “fare partito per farne strumento della politica sembra oggi dannatamente difficile perché impone scelte decisive. Perché dobbiamo dire cosa vogliamo e cosa siamo, che programma o che proposte non negoziabili portiamo avanti, chi vogliamo rappresentare che poi vuol dire: quali sono le nostre priorità”.
Ci serve ridefinire luoghi e modi della rappresentanza e delle decisioni. Serve un partito che sia legato ai territori, che dai territori tragga forza e che anche nelle città e nelle periferie selezioni i propri gruppi dirigenti.
IL PARTITO FRAGILE
Il Partito Democratico dalla sua nascita sino ad ora ha vissuto fasi alterne e alterni indirizzi politici. Il progetto ambizioso di riunire in un grande campo democratico le forze progressiste del nostro Paese ha vissuto in questi anni il limite dell’unanimismo ad ogni costo e dello scolorimento delle posizioni nell’ambito di scelte fondamentali. La rinuncia alla costruzione di un partito identitario ed ideologico non può in alcun modo voler dire rassegnarsi a idee e proposte che mancano di chiarezza e definizione pur di salvaguardare la soddisfazione parziale di ciascuna sensibilità interna al partito. Abbiamo così costruito un partito grande ma dalla capacità decisionale minima, travolto anch’esso e al proprio interno dalla crisi di rappresentanza che è difficoltà di rappresentare idee come istanze collettive. Nel tempo della complessità la politica si espone al consenso dei cittadini presentando la difficoltà di essere compresa. E lo stesso Partito Democratico, pur mantenendo nella propria stessa ragione d’essere la possibilità enorme di garantire rappresentanza, si offre con difficoltà irrisolta alla richiesta di chiarezza dei cittadini, degli elettori e degli stessi militanti.
All’origine dell’avventura del Partito Democratico condividevamo tra noi la necessità di una forza politica che si definisse –appunto- pienamente democratica. Oggi nel pieno della crisi della rappresentanza il PD è rimasto la più grande forza libera nel Paese. Nello spazio della politica puntellato da partiti personali e a trazione leaderistica il nostro partito resta uno spazio aperto, democratico e contendibile: in questo il PD è la grande risorsa del sistema democratico italiano. È questa però una straordinaria opportunità non sfruttata, una occasione non colta.
Un partito che sceglie di porre più attenzione ai veti posti da singole personalità che alla priorità di assumere decisioni fondamentali è nei fatti un partito fragile. Ai militanti non si è saputo offrire condivisione di scelte e processi democratici avviati da una discussione franca e conclusi con una decisione chiara. Non si è saputo garantire all’opinione pubblica una immagine di solidità e affidabilità pubblica. Nel tempo i processi democratici liberi sono diventati occasione di non-decisioni e paradossalmente sono apparsi come vincoli insuperabili alla supremazia della buona politica. Nella debolezza della politica espressa si è ribaltato il paradigma è si è scelto di essere approssimativi nel seguire le priorità politiche ed intransigenti nell’applicazione di metodi e procedure, fino alla burocratizzazione della vita interna del partito.
Il risultato elettorale deludente delle ultime elezioni politiche origina da queste difficoltà maturate nel tempo. Oggi ciascuno di noi deve avvertire il peso di una responsabilità nell’idea stessa di essere parte di una storia e di un presente comune, nell’idea che ogni singolo si fa portatore di una parte di sconfitta o di successo, dentro le vicende diverse che animano l’esistenza di una esperienza politica. Ciascuno da oggi deve avvertire su di sè la responsabilità di uno sforzo di rigenerazione per il Partito Democratico.
LO SPAZIO POLITICO DELLE IDEE
Il Partito Democratico che vogliamo deve essere una forza politica europea a disposizione dei militanti, di quanti ricoprono una carica elettiva, degli elettori. Dobbiamo fare in modo che il PD si mostri come la forza nella quale vi sia corrispondenza di indirizzo tra livelli di partecipazione differenti che non devono essere in conflitto tra loro, dando al partito struttura solida e proiezione esterna per intercettare consenso e garantire quindi uno spazio di agibilità larga nel rappresentare istanze ed esigenze; la cittadinanza piena dei militanti attraverso diritti e doveri; il ruolo degli eletti del partito – a cominciare dalle cariche parlamentari – al servizio della comunità che è il PD e dei suoi elettori.
Se le primarie diventano il confronto con il proprio elettorato, per verificare idee, progetti, programmi e anche candidati, allora abbiamo un valore aggiunto da spendere, il valore della democrazia e del coinvolgimento popolare. Il falso problema se siano più importanti gli elettori o gli iscritti nella vita del Partito Democratico (e nel partito) va smontato ridefinendo una idea nuova di partecipazione e di funzionamento. I militanti sono naturalmente il nucleo fondamentale del partito e va garantito più protagonismo e maggiore peso nelle decisioni non solo in occasione dei congressi. Gli iscritti devono esprimersi nelle decisioni prese attraverso consultazioni interne, nell’elaborazione condivisa, nella partecipazione ad organismi dirigenti collegiali. Un forza politica di prossimità, di vicinanza, può affermare una centralità nuova di circoli e territori e delle competenze di ciascuno. La centralità della base sta nel determinare, nel validare o nel modificare la linea politica del partito in relazione a specifici temi e questioni. D’altra parte non è possibile non considerare la necessità di interconnessioni e di contaminazioni non sporadiche con quanti guardano al partito e vogliono dire la propria.
L’elaborazione del partito nazionale deve offrire semilavorati da affinare e definire ad ogni livello. È possibile rendere pratica comune le primarie delle idee per valutare collettivamente alcuni passaggi determinanti o introdurre una frequenza abituale di consultazioni interne o ancora realizzare barcamp tematici in relazione a temi soprattutto di interesse locale. Allo stesso modo è giusto immaginare processi di accountability continua tra cittadini e decisori pubblici, così come dobbiamo pensare a processi di confronto democratico su questioni che riguardano la vita del partito. Chi riceve un mandato ed una responsabilità è giusto che decida e agisca come ritiene opportuno sulla base delle deleghe ricevute, ma alcune vicende e alcuni momenti richiedono confronto e decisioni.
È introdurre principi e strumenti di democrazia deliberante. È garantire uno spazio comune che sia contendibile dalle idee prima ancora che dalle persone. Avere un confronto continuo tra i militanti e uno scambio tra i circoli e i dirigenti politici lasciando ai circoli il ruolo di connettere le nostre idee alla società.
LEGARE LE CAPACITÀ
Ciò che dobbiamo realizzare insieme è un partito aperto, che sia riferimento per società e territori. Non un partito società come abbiamo detto a volte, ma un partito per la società, che svolga bene i propri compiti, ma che non abbia la pretesa di essere tutto.
Abbiamo bisogno di un partito rete, e che sia connettore di reti, in grado di coinvolgere associazioni, comitati, categorie professionali. In questa rete, gli iscritti al partito sono i nostri militanti, i possibili dirigenti, la forza reale a cui va garantito un protagonismo diretto nel partito. I circoli possono essere coinvolti in processi di democrazia deliberante con regole limpide e semplici per contribuire a determinare la linea del partito. Però vanno coinvolti anche gli elettori nella valutazione delle politiche e in casi che riguardino la comunità territoriale di appartenenza.
Crediamo in un partito che formi militanti, dirigenti, amministratori, ma per fare questo il confronto con gli entusiasmi e le critiche di coloro che ci sono intorno è indispensabile. È il primo banco di prova della nostra efficacia. In tanti nel nostro partito sono disabituati al confronto con i cittadini, alla ricerca del consenso. Bisogna misurarsi con le persone, con le idee, con le critiche più impietose, metterci la faccia in città come in provincia, nelle piazze affollate come nei circoli di partito più periferici. Perché la periferia talvolta non è solo geografica, ma anche il luogo della marginalità nel quale vengono relegate discussioni e battaglie.
Il rinnovamento del partito oggi non può ridursi in un trasferimento di potere dai sessantenni ai quarantenni deciso da pochi dirigenti e da patti tra correnti. Neppure si può pensare di inseguire la piazza. Può esserci invece l’inizio di una rigenerazione attraverso la valorizzazione delle forze migliori che sono emerse nella direzione del partito anche sui livelli locali, dall’impegno dei Giovani Democratici e dei tanti nuovi dirigenti nei Comuni e nelle Regioni. E poi dall’esperienza dei nostri amministratori locali più innovativi, che vanno messi in rete creando comunità di idee ancorate al governo del territorio e alla capacità di reperire risorse per garantire servizi alla propria comunità. Le ultime elezioni amministrative dimostrano, pur tenendo conto della grande astensione, che il PD degli amministratori locali e dei territori riesce a vincere. È la necessità di prossimità che le persone avvertono e che un partito organizzato deve offrire attraverso una rappresentanza diffusa, legata alle dinamiche locali, figlia di esigenze che nascono lì dove hanno forma e sostanza. Un partito quindi autenticamente federale, autenticamente vicino alle persone.
Sono tante le donne e tanti gli uomini capaci di fare la differenza nel nostro partito, vanno cercati e valorizzati. La questione è centrale: così si valorizzano persone e idee che sono maturate in esperienze ed elaborazioni concrete, che hanno contatto con i cittadini, che hanno misurato la propria militanza sulla base della realizzazione di progetti o in momenti autentici di rappresentanza. Dobbiamo immaginare un partito autenticamente federale, ispirato alle migliori pratiche europee, che funzioni bene e sobriamente, che si liberi del fardello di iperburocratizzazione che ne limita i passi. Che abbia una struttura centrale presente e forte nel determinare gli indirizzi politici, intransigente nella difesa dei valori ispiratori del Partito Democratico, efficiente nel garantire processi di democrazia deliberante. Ed un partito che sia legato al territorio e che abbia una gestione diffusa delle competenze. Creare una rete di competenze ci permetterà di approcciare all’idea di partito diffuso favorendo –per usare le parole di Fabrizio Barca- quella mobilitazione cognitiva che può essere ricerca e aggregazione di conoscenze, legame tra rappresentanti e rappresentati, scambio proficuo, creatore di futuro.
Dopo le ultime vicende maturate tra le elezioni politiche del 2013 e le tribolazioni dentro il centrosinistra ed il PD è archiviata una stagione, deve essere chiaro e non si potrà essere indulgenti davanti agli errori commessi. Ma il PD non è finito, saprà
rigenerarsi cercando tra le forze migliori. Ritrovare il senso di un cammino sarà nel legare le capacità l’una con l’altra. Generando fiducia, forza, solidarietà, pensiero.
Il Partito Democratico può essere il cambiamento che l’Italia ha necessità di sperimentare. Può essere, nella propria azione politica, l’urgenza di costruire un futuro che vale. Un tempo nuovo che possa essere degno del nostro sforzo di costruzione. Al quale ciascuno senta l’orgoglio di aver partecipato. È il momento di ritrovarci insieme. In questa epoca instabile non vogliamo solo rimetterci alla speranza, ma movimentare le intelligenze per offrire buone idee alla società. Cominciando oggi, cercando il senso comune del nostro stare insieme, un Partito democratico, solidale, europeo.