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L’assurda liberalizzazione dei licenziamenti

C’è da chiedersi quale sia il senso e l’utilità delle misure di liberalizzazione dei licenziamenti per motivi economici annunciate dal governo nella lettera alla UE. Per prima cosa va sgombrato il campo dall’alibi costituito dal “ce lo chiede l’Europa”. Da dieci anni la politica delle destre in Italia si è trincerata dietro questo alibi, fin dal libro bianco del 2001: il risultato è che è cresciuta enormemente la precarizzazione del mercato del lavoro, che colpisce soprattutto i giovani e le donne, mentre non è stato scalfito alcun reale privilegio corporativo e non si è attivato nessun strumento di sostegno al reddito e di avviamento al lavoro per i soggetti esclusi dal mercato del lavoro, alla faccia della c.d. flexsecurity. Dietro lo schermo della liberalizzazione delle assunzioni si sono invece rafforzati i meccanismi familistici quando non clientelari: le “conoscenze” e le “raccomandazioni” restano lo strumento più diffuso per trovare lavoro. Lasciamo quindi stare, al momento, la questione europea. Guardiamo a ciò che succede in concreto in Italia.

Su un mercato del lavoro già precarizzato e frammentato, segnato in particolare dal drammatico dualismo nord-sud, si è abbattuta la crisi economica a partire dal 2008. In generale le crisi aziendali si verificano non per deficit di produttività del lavoro o per gap competitivi, specie nei settori più avanzati sul piano tecnologico. Basti guardare alla meccanica emiliana e alle migliaia di piccole imprese, specie artigiane, del nord-est strozzate dalla tenaglia tra caduta delle commesse, ritardati pagamenti dei committenti e difficile se non impossibile accesso al credito. Nelle grande maggioranza dei casi il problema di queste imprese non è quello di liberarsi dei lavoratori ma, al contrario, di trattenerli, di conservare quindi la capacità produttiva in vista di una possibile ripresa. Da qui il massiccio ricorso ai c.d. ammortizzatori sociali in deroga, che consentono una parziale copertura dei salari anche nelle imprese a cui non si applica la cassa integrazione. Che c’entra tutto questo con la liberalizzazione dei licenziamenti per motivi economici? Nulla. Si tratta quindi di una operazione puramente ideologica a cui giustamente i sindacati, per una volta uniti, si oppongono con forza.

A meno che l’obiettivo vero sia un altro: mascherare dietro la liberalizzazione dei licenziamenti per motivi economici quella, in realtà, per motivi “soggettivi”: dare mano libera alle imprese per espellere i lavoratori scomodi, i sindacalizzati, quelli meno produttivi per ragioni oggettive (i lavoratori usurati, le lavoratrici-madri ecc.). Tutto questo in coerenza con il disegno del famigerato art. 8 della legge n.148, quello che consente con contratti aziendali o territoriali di abrogare l’intero diritto del lavoro, compresi i diritti fondamentali. Una norma indecente, contro cui si sta avviando giustamente una iniziativa referendaria. In entrambi i casi si vellica l’istinto peggiore delle imprese: le si induce a muoversi nella logica del breve periodo, degli interessi immediati, in una prospettiva sostanzialmente anarchica e all’insegna di un selvaggio dumping sociale. Quando ciò che serve è il contrario. Puntare sulla coesione sociale, su un patto di fondo tra le forze produttive che faccia uscire il paese dalla forbice tra misure necessarie di contenimento del debito pubblico e recessione.

Luigi Mariucci

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